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LOS ANGELES – Il titolo potrebbe trarre in inganno: Gran Torino, il nuovo film di e con Clint Eastwood che segue di pochi mesi Changeling con Angelina Jolie (uscirà a gennaio negli Usa e a febbraio in Italia), non è un prodotto d’azione con inseguimenti d’auto, ma una melanconica cronaca degli ultimi giorni nella vita di un vedovo, un lupo solitario arrab biato con tutti e miscredente. Non può non far pensare a un Dirty Harry nell’inverno della vita. “E’ un veterano della guerra di Corea, pieno di pregiudizi, rimorsi, rabbie” lo racconta lo stesso Eastwood, che torna sullo schermo come interprete a quattro da Million Dollar Baby, “Walt è un uomo incapace di comunicare, anche col figlio o i nipoti. I suoi vicini di casa sono immigrati vietnamiti che a lui non piacciono affatto”.

Walt ha un’unica grande passione, la sua auto sportiva d’epoca, una Ford Gran Torino, un vero cimelio. Quando un ragazzino vietnamita tenta di rubargliela, aizzato dalla gang locale, Walt si surriscalda. Le conseguenze dell’offesa subita sconvolgeranno la vita di tutti, Walt compreso. “Walt non è un ispettore Callaghan da vecchio” insiste Eastwood “I due periodi storici sono troppo differenti. Harry era frustrato dal sistema politico e giudiziario della città, Walt vuole solo pensare ai fatti suoi”.

Ma anche Walt finisce per farsi giustizia da solo, non crede?

“Sì, ma è un uomo tormentato dai ricordi della guerra da lui combattuta nel passato. E quando finalmente acconsente a confessarsi in chiesa, come desiderava la defunta moglie, si vede che soffre tantissimo. Del film mi piaceva l’idea che non è mai troppo tardi per imparare, crescere, capire. E ricevere una sorta di illuminazione”.


Sentimenti che la sua generazione conosce?

“Non riuscire a rapportarsi con i propri figli è spesso un limite della mia generazione, gente cresciuta negli anni ’40 e ’50. Walt è anche abituato a vivere in un quartiere di gente come lui, non è aperto ad altre culture, ma quando diventa amico di questi strani vicini di casa capisce di avere più in comune con loro che con la sua famiglia, con i suoi figli viziati. Fa un lungo viaggio interiore, fino a dare la vita per loro”.

Un messaggio di tolleranza in un periodo storico particolare come questo?

“Sì, ed è quello che mi ha affascinato del copione, il modo in cui progredisce dall’intolleranza alla solidarietà. Walt è uno che all’inizio insulta tutti, come spesso fanno quelli della sua generazione, apostrofa i vicini immigrati, che non conosce nemmeno, con pesanti affermazioni razziste, non riesce a trattenersi, fino a quando diventa il loro più strenuo difensore. Non è un uomo politicamente corretto, ma ha una sua sensibilità, e lo diventa. Allo stesso tempo penso che il “politicamente corretto” stia andando troppo oltre, la gente perde il senso dell’umorismo. Mia moglie è un misto di tutto – messicana, giapponese, nera, irlandese – e io la prendo sempre in giro su tutte le sue particolarità etniche e ci divertiamo. Ma forse non ci piacerebbe se lo facesse qualcun altro”.

Cosa pensa della politica americana verso gli immigrati?

“E’ un serio problema che dovrà essere affrontato e sono rimasto molto deluso dal fatto che nessuno dei candidati, durante le elezioni, ne abbia voluto parlare, come volessero evitarlo. Il che significa che nessuno ha un piano d’azione. Secondo me tutto il processo di immigrazione dovrebbe venire riorganizzato e semplificato, in modo da accettare gente che davvero vuole venire qui a lavorare, e allontanare i criminali. Abbiamo sicuramente bisogno degli immigrati, è il modo in cui questo paese è stato costruito”.

Nonostante lei non sia un sostenitore del nuovo presidente degli Stati Uniti, non pensa che con Obama cambieranno le cose proprio in questo senso?

“Lo spero, tutti noi speriamo nei miglioramenti, come nazione e come individui, e le possibilità ci sono. Purtroppo ho anche vissuto abbastanza a lungo da aver visto tanti personaggi politici arrivare a Washington e perdersi, dimenticando che là fuori c’è una realtà diversa. E’ successo a tanti politici nel passato, mi auguro non succederà anche ad Obama”.

I suoi film toccano sempre temi molto profondi, come la guerra e la tolleranza verso gli altri. Come sceglie i progetti, per il messaggio o per il loro valore spettacolare?
“Penso che ci sia bisogno di una combinazione di entrambi gli elementi. Cerco una storia che abbia un messaggio ma spero anche sia un intrattenimento, che trasmetta emozioni agli spettatori, che siano tragiche o divertenti. Cerco di raccontare una storia interessante. Da giovane ho fatto film per il piacere dell’avventura, per il pubblico, ma in questa fase mia vita voglio poter dire qualcosa. Negli ultimi 15 anni ho fatto film per adulti, sperando che li vedano anche i giovani. Mi manca l’epoca in cui gli adulti andavano al cinema, quando non c’era sempre lo stesso genere e i film non dovevano essere necessariamente dei sequel. I tempi di Preston Sturges e Howard Hawks, che giravano sempre soggetti nuovi per loro, che fossero spettacolari o veicoli di un messaggio. Oggi appena un film ha successo e fa soldi, i produttori ne vogliono fare altri quattro uguali! A 78 anni, non sarei soddisfatto se ogni giorno non potessi imparare qualcosa di nuovo”.