Voglio fare una premessa: gli articoli che scriverò in questi giorni, non saranno scritti con la pretesa di riportare fedelmente gli interventi (vi assicuro che sono molto complessi e di alto livello); ma vogliono essere spunti di riflessione che partono da ciò che ho sentito e da quanto mi è stato trasmesso emotivamente e coscienziosamente.

La prima lezione della “Summer GIA Marche” è stata tenuta dal Professore dell’Università di Macerata Roberto Mancini il quale ha posto un interessante quesito sul significato delle parole chiave del nostro tempo: CRISI, RIFORMA, CRESCITA… servono a spiegare o a rassegnare?

La contemporaneità ha visto la globalizzazione trasformarsi in crisi, una parola non esatta per descrivere la reale condizione in cui ci troviamo. Se consideriamo il significato scientifico del termine, crisi rappresenta un passaggio rapido dal quale o si guarisce o si muore, pertanto, essendo la nostra una situazione che persiste dal 2008, non è corretto utilizzare un sostantivo che induce l’attesa del cambiamento. In oltre siamo portati a credere che sia un evento estraneo scordando invece che si tratta del risultato di precise scelte che andrebbero analizzate e modificate, perché solo la trasformazione radicale può portare al miglioramento. Anche il concetto di riforma, per come è inteso comunemente non porta ancora al reale trasformazione, finché questa parola resterà legata all’accentramento del potere agli organi convenzionali, non sarà mai effettiva. E in fine la crescita, che non può essere un benessere nella vita comune, fino a quando resterà legata all’aumento del capitale, perché l’incremento di quest’ultimo vede come necessaria condizione la diminuzione della ricchezza destinata all’economia reale.

Come possiamo intuire sono molte le parole che mentono, ed è per questo che dobbiamo sviluppare una capacità di analisi della reale condizione. Un’analisi che non deve mai dimenticare che ci sono tre versanti: quello dei responsabili, quello delle vittime e quello in cui si trova un progetto di alternativa.

Ma come siamo arrivati a questo sistema?

Consideriamo l’economia moderna come se fosse un albero: la chioma è il sistema capitalismo organizzativo, il tronco è la cultura capitalistica e le radici, invisibili e nascoste, sono i miti antichissimi sui quali si fondano le credenze. Questo per farci capire che non basta il riordino del sistema organizzativo per il miglioramento della condizione, per riuscire in questo intento bisognerebbe fare un lavoro più profondo che vada a scardinare il profondissimo radicamento culturale. L’uomo basa il suo comportamento sociale su 4 pensieri fondamentali:

  • L’uomo è egoista, individualista e calcolatore per natura
  • La natura è avara (concetto di scarsità), ed è per questo che attribuiamo un valore alle cose e siamo portati a competere per conquistarle
  • Il senso ultimo della vita è la morte, la verità è la morte (l’uomo è l’unico animale a convivere con questa coscienza), e ciò porta al sopravvivere e allo scaricare il peso delle tragedie sociali
  • Gli dei non si interessano di noi… siamo abbandonati e dobbiamo cavarcela da soli (di nuovo torna la sopravvivenza)

Ma ciò a cui non possiamo di certo credere è che l’uomo abbia degli atteggiamenti per natura, che prescindano dalla propria coscienza e volontà, anzi se mai l’uomo, per natura, fa eccezione alla sua stessa natura. Dobbiamo quindi superare le diversità e il personalismo ed arrivare a riconoscere l’umanità come unico gruppo, fili dello stesso tessuto che se si lacera in un solo punto poi si rompe tutto. E superare altresì l’idea di ricchezza e povertà tornando invece alla considerazione dei reali bisogni di ciascuno, senza accumulare ciò che non serve e provvedendo al reperimento dei beni per chi non ne dispone. Perché non è vero che l’uomo è competitivo “per natura”, tutt’altro, la mamma accudisce il piccolo procurandogli ciò che serve, provvedendo ad esso non lasciandolo “competere nel mondo”. Inoltre dobbiamo rispondere al senso di abbandono divino con un’attivazione di se stessi nella gestione del bene comune e necessario riattivare la cittadinanza partecipativa, tornando ad una vera “democratizzAzione”, tornando ai valori sociali di democrazia tra uomini e donne, adulto e bambino, con gli stranieri, una democrazia internazionale e economica. La rivoluzione però non può essere in questo caso un rapido cambiamento ottenuto con la violenza, ma deve essere il risultato di una proposta alternativa.

E sono molte le strade possibili, soprattutto nei modelli economici; ricordiamo tra i tanti: l’economia delle relazioni di dono, in cui si pone l’attenzione ai bisogni delle persone e le relazioni che questo comporta mettendo al centro la comunità e non l’individuo; oppure il modello ghandiano, secondo il quale ciascuno è responsabile dei suoi talenti verso l’intera società perché il ruolo che ciascuno svolge ricade direttamente su essa; esiste anche il modello islamico, dove non è prevista un economia nel prestito con interesse. La via migliore sarebbe quella di prendere le intuizioni migliori di ciascun modello e integrarli per creare un modello complesso ma che sia di reale trasformazione e cambiamento.

Un consiglio pratico che il professore ci ha lasciato per poter fare nel nostro piccolo azioni reali e dirette alla trasformazione è sicuramente partire dalla concezione che un’alternativa all’ordine vigente è possibile, e questo lo si può fare percorrendo realtà diverse, contribuendo ad alimentare economie alternative come i gas, il commercio equosolidale, i ress, ecc… disseminando così nel tempo l’attuale logica economica.

Martina.

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