lorenzoCORTONA (Arezzo) – Per trovare la grazia, di questi tempi (dell’arte, della vita, delle buone cose), bisogna essere esperti rabdomanti. Eppure abbiamo in Italia un hobbit capace di sconfiggere l’oscurità delle tenebre. Vive a Cortona, in una bella casa che trasuda famiglia e futuro, e si chiama Lorenzo “Jovanotti” Cherubini. Questo è il suo anno, non solo dal punto di vista dei numeri (un disco, Safari, ancora in classifica dopo un anno, un singolo A te, il più scaricato del 2008, Amazon che ha inserito Fango tra le venti canzoni più significative dell’anno) quanto per un evidente stato di creativa felicità.

“Sono quasi in imbarazzo” racconta “il disco ha avuto un successo impressionante, non mi era mai capitato in tutta la carriera. E a 42 anni si gode di più del successo. A venti sembra quasi normale: mi sentivo il più forte, sembrava la matematica degli eventi. Ora no, fa strano anche a me, mi gratifica molto, e mi sollecita a restituire un po’ di tutta questa fortuna. È quel sottile senso di colpa che genera il successo in chi è cresciuto in parrocchia. Ma devo dire che in questo momento la cosa strana che mi accade è che vedo in avanti. Non perdo tempo a gonfiare il petto, penso al dopo, adesso viene il bello. Ora ci possiamo divertire”.

È il suo anno d’oro, un anno di contrasti incredibili: il successo, il matrimonio, ma anche la morte di un fratello…
“Sono pensieri difficili da comunicare, pensieri molto profondi che una volta detti diventano banali, sembra di stare in tv a dire la cazzata del momento. E invece la morte è entrata nella nostra famiglia, come in Cent’anni di solitudine. Marquez pala di Macondo come di una città dove non è mai morto nessuno. Noi eravamo Macondo, ma quando muore qualcuno Macondo non è più quel luogo di magia incontaminata, diventa un altro posto, dove tutto conta, dove tutto sembra che ti sfugga dalle dita. Ora molto è cambiato: i genitori invecchiano, e vedere cosa può provocare la morte di un figlio in loro… essere testimoni di questo fa diventar pazzi. O più saggi: s’impara a dare alle cose il giusto valore, a collocarle in una prospettiva. È una cosa che è successa, che non mi spiego, la morte di un uomo fantastico. Questa mattina sono andato al cimitero, quando posso ci vado, e mi metto lì. Non faccio nulla, cerco di mettere a frutto la sua eredità. Lui è stato il più grande appassionato di musica della famiglia, è merito suo se sono diventato un fan di Dylan. È come se mi avesse lasciato un baule: l’ho aperto e dentro c’erano Bob Dylan, Leonard Cohen… Lui era fissato con Dylan, era la sua formazione. E aveva ragione: Dylan è tutto. Ma adesso è una cosa in più, è anche la voce di mio fratello”.

Ora cosa succederà?
“Il 2009 lo immagino come un anno di studio: ho un nuovo pianoforte, vorrei studiare, anche la voce, capire meglio questo strumento, e poi comunque farò cose straordinarie. L’11 gennaio sarò in America nel cimitero di Spoon River per cantare Il suonatore Jones, in collegamento col programma che Fazio dedicherà a Fabrizio De André nel decennale della morte. Poi ho scritto un testo per Celentano, s’intitola L’animale, e per questo lui ha intitolato così la raccolta, anche se dentro il pezzo non c’è. Non l’abbiamo finito, manca ancora una musica che ci piaccia, forse a gennaio la scriveremo insieme. E poi ho scritto il testo per la canzone che Nicky Nicolai porterà a Sanremo, Più sole“.

Sole, luce, energia. Sembra che quest’anno abbia scoperto la semplicità, almeno stando alla disarmante innocenza di A te…
“Sì, solo che sostituirei semplicità con intensità, perché oggi la semplicità non riesco a capire bene cosa sia, è chiaro che è un punto d’arrivo, soprattutto per chi fa musica, è il punto d’arrivo di una canzone, per me però per arrivare lì c’è un lavoro lungo, di scarto, di attesa e di ricerca, questo disco è frutto proprio di questo lavoro: per Safari ho cercato canzoni, più di quanto non avessi fatto prima, canzoni che stessero in piedi, tre minuti e venti per comunicare a ampio raggio. Qualche anno fa, mentre facevo una passeggiata ho incontrato dei ragazzetti. E mi sono reso conto per la prima volta in vita mia di non essere io tra quei ragazzi, di aver scavallato la generazione, c’era tutto un mondo più giovane di me. Così ho pensato: cosa ascolta questa gente, cosa devo fare per questi ragazzi? Teoricamente niente, hanno i loro idoli, la loro musica, ma siccome io sono un negozio che vende canzoni, se mi metto a cantare soltanto per quelli dell’età mia è l’inizio della fine, divento un cantante generazionale. Ci posso campare, ci posso pagare i conti, ma non è quello che voglio, e allora per fare questo ho avuto bisogno di rieducare il mio stupore, la mia capacità di godere di una cosa che magari ho già sentito mille volte, un giro armonico, un suono di batteria, riscoprire, innamorarmi di nuovo di questa cosa, e questo è A te, esattamente questo, una canzone nata dal testo, da un giro armonico che abbraccia tutta la musica mondiale: da Bach in poi. Lo chiamano il “canone celebre”, da cui è arrivato molto pop (anche Albachiara), ma una canzone è fatta di tanti elementi, di timbriche, di equilibri, cose misteriose che noi facciamo in laboratorio, per cui a volte sperimentando si dà luogo a reazioni chimiche: metti questo, metti quell’altro, a volte esplode, altre volte vien fuori un colore magico di cui ignoravi l’esistenza”.

Eppure inseguire i giovani potrebbe essere un calcolo, nemmeno troppo edificante…
“La ricerca di consenso è legittima in chiunque faccia il mio mestiere: abbiamo committenti, e a me piace l’idea che questo sia un mestiere, solo a dirlo mi dà gusto perché è bello che sia così, perché è il mio lavoro. Sono un padre e voglio che mia figlia sappia che suo papà fa un lavoro. Le dico sempre: questa casa è frutto del lavoro del tuo babbo, quando vedi che va in giro, sta facendo il suo lavoro. Solo che io lavoro con le emozioni”.

E cos’è che dà emozione a Jovanotti?
“Ieri ero al saggio di violino di mia figlia: hanno suonato un canone barocco, semplicissimo, ma ho visto quei ragazzini dentro una tradizione. In salvo, perché è da lì che puoi costruire il nuovo. Ecco, mentre facevo A te mi sentivo dentro una tradizione. Quando ho visto questi bambini suonare il violino, ho ritrovato la tradizione: so che se mia figlia Teresa si avventurerà in un mondo difficile conoscendo la lingua della musica, avrà una lingua in più a disposizione. Quando vedo come il nostro governo tratta la cultura, o la musica nelle scuole, capisco che c’è qualcosa che non va, perché in quella tradizione c’è la nostra civiltà, la capacità di gestire la complessità, perché con la musica crei sequenze di senso in un mondo che, di per sé, un senso non ce l’ha”.