theron
VENEZIA – Generosa, attenta, allegra. Ma qualcosa di lei sfugge, resta misterioso, si avverte la presenza di un nucleo inafferrabile. Un enigma che contribuisce al suo fascino. Per questo di Charlize Theron si può dire, con ragionevole certezza, soprattutto ciò che non è. Non è mai banale quando parla di qualcosa che le sta a cuore. Non è una che si rifugia nei luoghi comuni hollywoodiani, nei cliché del “cosa significa essere attrici”. E non è una persona concentrata esclusivamente su di sé: prima di rispondere alle domande si concede sempre una breve pausa di riflessione.

Così come non è una che sembra prendere sul serio la sua immagine pubblica: ad esempio, liquida una questione che la insegue da tempo – la dicotomia tra il suo look molto glamour e i ruoli sofferti che recita – rivendicando una “sana” schizofrenia. “Certo, sono una creatura dotata di sensualità, cosa c’è di sbagliato? Perché dovrei vergognarmi di essere diverse cose contemporaneamente? Sono donna, sono una femmina, e non mi scuserò mai per questo”.

Frasi dette comunque in tono gentile, col sorriso sulle labbra. Un’amabilità che caratterizza anche l’ultimo incontro con l’attrice, che si svolge in uno dei gioielli del Lido di Venezia, l’Hotel Des Bains. Luogo elegante, crepuscolare, celebre non solo perché ogni anno ospita molte star in transito alla Mostra del cinema; ma anche perché qui Luchino Visconti girò il suo Morte a Venezia. Ambientazione suggestiva, dunque, per la diva sudafricana adottata da Hollywood. Che si presenta in abito fucsia scollato sulla schiena, capelli lisci color oro pettinati con semplicità, la solita prorompente bellezza: non a caso, è una presenza abituale nelle classifiche del fascino stilate dalle riviste. “Queste graduatorie sono carine, ma non bisogna prenderle assolutamente sul serio”, taglia corto.

Poi cambia argomento, si sofferma sul suo modo di intendere il mestiere che ha scelto: “Io parto sempre dal fatto che noi tutti siamo esseri umani. Che tutti noi, qualsiasi cosa facciamo, siamo indifesi, fragili. Nudi, insomma. E, come nella realtà, anche al cinema bisogna mostrare le cose come sono, autentiche, senza veli e senza schermi. Quando mi calo in un personaggio, il mio scopo è provocare empatia, in chi mi guarda. La sfida è suscitare emozioni forti: far provare allo spettatore, anche se per un solo istante, una sorta di brivido che scende lungo la schiena. Se accade, anche per un unico attimo, vuol dire che il risultato è raggiunto”.

Fragilità, nudità, autenticità. Concetti che si applicano alla perfezione a molte delle sue prove cinematografiche. Spesso in film poco commerciali: “Cerco di scegliere i registi che non abbelliscono le cose, ma quelli che dicono la verità. Io sono affamata di verità”. Da qui la sua partecipazione a Monster, in cui interpreta una serial killer realmente esistita, che le ha fatto vincere un Oscar. O a North Country, in cui è una lavoratrice di miniera che si ribella alle molestie. O a Nella valle di Elah di Paul Haggis, struggente dramma sui soldati che tornano dall’Iraq. O, ancora, ai più recenti The Burning Plain di Guillermo Arriaga, in cui è una donna lacerata da un’antica colpa; e Sleepwalking, altra storia centrata su una madre snaturata: “Una che abbandona una figlia undicenne, che sceglie solo uomini sbagliati, che soffre, che si fa del male”.

Tutti ruoli “in chiaroscuro, che vanno capiti, e non giudicati in maniera manichea, con le classiche categorie del bene e del male. I personaggi che interpreto in questo tipo di film hanno dei difetti, certo: ma del resto, chi di noi non ne ha?”. Risultato: una galleria di ritratti femminili complessi, a volte sgradevoli, mai facilmente classificabili. Per cui lei si spende non solo come interprete, ma anche come produttrice. “Per me è gratificante – racconta, riferendosi a questo suo secondo lavoro – non è poi così diverso dal recitare su un set: in entrambi i casi bisogna essere creativi, e consapevoli del fatto che la lavorazione di un film è un’attività molto complessa. Certo, se ci si impegna in opere come Monster o The Burning Plain, che ho contribuito a produrre, non lo si fa pensando di diventare ricchi: lo si fa per poter essere orgogliosi del risultato finale”.

Anche se poi quell’interpretazione di serial killer – brutta, appesantita, irriconoscibile – le ha fatto vincere il premio più ambito (ed economicamente redditizio) del cinema. “La cosa bella di un riconoscimento “istituzionale” come l’Oscar – commenta – è che spesso viene assegnato a film considerati rischiosi. Quelli che affrontano argomenti scomodi, che non vengono certo fatti per sfondare al botteghino. Quelli insomma che gli studios non vogliono fare. Ma non bisogna prenderlo troppo sul serio: in fondo è solo un soprammobile”.

Un tentativo di smitizzare, di non enfatizzare troppo i suoi successi. Ma, quando le si chiede di spiegare il “miracolo” della recitazione, i toni diventano più seri: “Credo che sia sbagliato chiedere a un attore qualcosa sul processo di immedesimazione in un determinato ruolo. Di rivelare, insomma, i segreti del mestiere. È come domandare a un prestigiatore il come e i perché dei suoi trucchi illusionistici. È magia, questo è tutto. Il cinema è magia. Un film è un viaggio che l’interprete compie, con un solo imperativo come guida: essere quanto più fedele possibile alla condizione umana. Che è sempre qualcosa di estremamente complicato. Una cosa, però, posso svelarla: bisogna guardare in se stessi, anche a costo di un po’ di sofferenza. Ed essere realmente affascinati dalla persone, dal loro modo di comportarsi nelle varie circostanze della vita”.

Ma non ci sono soltanto ruoli sofferti nella carriera della Theron. A Hollywood, infatti, c’è un’altra Charlize, eroina di tanti action-movie: da The Italian Job fino a The Tourist, che sta per girare al fianco di Tom Cruise, passando per il successo planetario di Hancock, la storia di un supereroe interpretato da Will Smith. Interpellata sul perché del fascino del supereroe – nei fumetti, ma anche al cinema – risponde: “Non so perché la gente li ama, è come chiedersi “perché le persone credono in Dio?”. Forse per una parola di conforto, o perché cerchiamo dei grandi leader, forse perché fa parte del nostro modo di essere: ci fa sentire migliori sapere che c’è qualcuno”.

Parole che rivelano, indirettamente, la sua personale forma di spiritualità. Quella che, forse, l’ha aiutata nei momenti difficili. A partire dal più doloroso. Accadde nel 1991, lei aveva meno di sedici anni e viveva in una fattoria a Benoni, a poca distanza da Johannesburg, con la madre Gerda, di origine tedesca, e il padre Charles, di origine francese. Un giorno, di fronte all’ennesimo sopruso subito da un marito alcolista e violento, Gerda prese la pistola e lo uccise. Non fu condannata, perché le venne riconosciuta la legittima difesa. Lei e la mamma, tra alti e bassi, sono rimaste legatissime, anche se con un rapporto tormentato: “Tutti noi abbiamo relazioni conflittuali con quelli che ci circondano – spiega -. Ho cercato di avere un buon rapporto con mia madre, ma quelle che lei chiama gradevoli conversazioni in realtà sono liti. Questo non toglie che mi sono sempre sentita sua figlia, ci siamo sempre protette a vicenda”. E forse questa forte solidarietà femminile vissuta sulla propria pelle l’ha convinta a diventare ambasciatrice Onu contro la violenza sulle donne.

Come forse dallo stesso vissuto familiare viene quella tendenza della giovane Charlize a fuggire altrove: “Volevo fare la ballerina, studiavo danza da anni, ma a sedici anni partecipai a un concorso per indossatrici, vincendo come premio un contratto a Milano”. Una carriera che le dà i primi guadagni, proprio mentre un brutto incidente al ginocchio le chiude per sempre le porte del balletto. A lei però sfilare non basta, vuole fare l’attrice: e così sbarca a Hollywood. Con un handicap, però: la sua celebrità come modella. Dovuta soprattutto allo spot-cult in cui interpreta la bionda amante di un vecchio milionario alla Onassis: lei lo lascia per seguire un bel giovanotto bruno, mentre il suo vestito di maglina si decompone, lasciando vedere il lato B. Un tipo di popolarità che le è costata parecchio: “Quando ho deciso di recitare sapevo che avrei portato il marchio, le stimmate dell’indossatrice. È come andare in guerra con una gamba sola. Anche per questo scelgo solo i ruoli che mi convincono: voglio essere sempre credibile”.

E a renderla credibile, nei primi anni della sua carriera d’attrice, ha contribuito senz’altro Woody Allen, con cui ha lavorato due volte: “Dopo aver girato con lui Celebrity – ricorda Charlize – mi contattò per un altro ruolo per La maledizione dello scorpione di giada. Gli chiesi che tipo di personaggio fosse, lui mi rispose: “Se lo avessi girato negli anni Quaranta lo avrei offerto a Lauren Bacall”. E quale donna rifiuterebbe una parte da dark lady alla Lauren Bacall? Io poi adoro i noir anni Quaranta. Con Woody comunque lavorerei altre mille volte, è un’esperienza diversa rispetto a quella con qualsiasi altro regista. Ti dà un enorme libertà di sperimentare, di fare cose anche ridicole. E poi le sue sceneggiature sono fantastiche”.

Tornando a tempi più recenti, tra le pellicole che la Theron ama particolarmente c’è quella diretta dal suo compagno, l’attore e regista Stuart Townsend: si chiama Battle of Seattle e ricostruisce i cinque giorni di duri scontri al Wto del 1999. “È stato divertente lavorare con Stuart. Ci capiamo alla perfezione. E siamo entrambi fan di Barack Obama. Quanto alla vita privata, non abbiamo intenzione di sposarci. Vorremmo invece avere dei bambini”.

E, di fronte all’ammissione così sincera di un suo desiderio personale, inevitabilmente viene da pensare che per lei essere madre sarà un modo per chiudere il cerchio della sua tragedia familiare. E, magari, di perdonare definitivamente i genitori: “Ammetto che esistono dei comportamenti troppo gravi per non essere giudicati col metro della società – conclude il ragionamento Charlize – se non fosse così, non ci sarebbe bisogno di far governare il mondo dal diritto, dalla legge. Se c’è qualcuno che va in giro ad ammazzare la gente, bisogna fermarlo. Ma questo non impedisce di provare per chiunque un briciolo di comprensione, di partecipazione umana”.