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IN ESTATE, attraversare la Valle Vigezzo da Domodossola e poi le Centovalli nel Canton Ticino fino a Locarno, è spettacolo di verde in tutte le gradazioni che colma gli occhi e rinfranca i polmoni, mentre d’inverno, con queste distese di neve candida, è facile abbandonarsi a certi ricordi cinematografici ed evocare treni da Dottor Zivago: la Vigezzina è una delle ferrovie alpine con il tracciato più suggestivo, sfiora cascate con i ghiacciai sullo sfondo, un vero capolavoro di ingegneria immerso nella natura.

“D come Domodossola”: in lombardo occidentale è semplicemente Dòm, mentre i romani la chiamavano Oscela Lepontiorum, centro abitato della Gallia Cisalpina, poi assurta a Domus Oscelae nel medioevo, quando fu l’unica a vantare un duomo nella zona ossolana.

 Nella storia contemporanea, va orgogliosa di essere stata capitale della repubblica partigiana dell’Ossola, dal settembre all’ottobre del 1944, appena 33 giorni da unica isola di democrazia nell’Italia martoriata dell’epoca. Una passeggiata per Domodossola ci permette di ammirare un centro storico conservato con amore per l’architettura ossolana, in cui spiccano la Piazza del Mercato, la Collegiata o il seicentesco Palazzo Silva, il tutto incorniciato dal sontuoso panorama delle Alpi Lepontine che la stringono in un abbraccio silente e maestoso. Una visita imperdibile è al Sacro Monte e al celebre Santuario del Crocifisso, edificato dai cappuccini nel 1657 sul colle alle pendici del Moncucco, un tempo bastione fortificato e oggi dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

Si parte “sottoterra”: a Domodossola la Vigezzina si raggiunge con scale mobili o ascensori, e il treno si avvia al buio di una galleria, ma ben presto il sole irrompe negli scompartimenti quando scivoliamo in relativo silenzio nella piana di Domodossola con il fiume Toce accanto, e basta superare la stazione di Masera per cominciare ad arrampicarsi sui tornanti, fino agli 800 metri di Orceso, e ci affacciamo sulla valle di origine glaciale che divide l’Ossola dal Ticino. In questo scenario di valloni scavati dai torrenti, boschi e prati innevati con qualche baita e borghetto montano a spuntare qua e là, inizia anche un percorso della memoria: quella dei vigezzini, migranti non tanto per vocazione quanto per bisogno, che annoverano un’incredibile quantità di personaggi singolari, di inventori geniali o “incursori” nella Storia, spesso loro malgrado o in forma del tutto casuale.

 

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La Valle Vigezzo è innanzi tutto un territorio di spazzascoperte, ricordiamo il tabacco da fiuto, l’acqua di colonia, il pallone aerostatico, persino il calorifero. Andiamo con ordine. I fratelli Mattei emigrarono da Albogno in Olanda, secolo XVII, e ad Amsterdam acquistarono a poco prezzo un malridotto vascello scampato a un naufragio nei mari delle Americhe. Trasportava balle di tabacco, che per urti e scossoni si era impregnato di rum, fuoriuscito dalle botti sventrate. Anziché gettarlo via, lo lasciarono seccare e lo polverizzarono: nacque così il tabacco da fiuto, quello che il Parini offriva al “giovin signore”.

Un altro vigezzino, Giovanni Feminis, sempre nel seicento, emigrò a Colonia, dedicandosi all’erboristeria e avviando una distilleria di “aqua mirabilis” a base di essenze e alcol, poi, nel 1806, un lontano discendente venuto pure lui dalla stessa valle, si stabilì a Parigi e commercializzò con successo l’”Eau de Cologne”, rifornendo nobili e sovrani che, dal secolo precedente, ereditavano la scarsa abitudine a lavarsi e quindi a irrorarsi di profumi… Nel 1780, cioè tre anni prima che i fratelli Montgolfier si librassero in volo, il vigezzino Saverio Adorna sorvolava Strasburgo a bordo del pallone da lui costruito, 51 metri di circonferenza per 26 quintali di peso. Infine, a Zornasco – stazione che segna circa metà del tragitto – nacque nel 1779 Pietro De Zanna, emigrato a Vienna dove inventò il calorifero ad acqua e aria calda, con cui riscaldò il palazzo imperiale e successivamente, richiamato dai Savoia, anche quello reale di Torino.

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Un’altra prerogativa di questa valle è la proliferazione di streghe e fantasmi: le leggende al riguardo abbracciano un millennio, dal primo medioevo all’altroieri, in un tripudio di fattucchiere, briganti senza requie e demoni burloni, nonché frequenti apparizioni di morti freschi o datati, e già nel 1621 si registrava l’allarmata dichiarazione del pretore Guidizone che definiva la Valle Vigezzina “infestata di persone stregate”. Ben più tangibile è invece la presenza dei contrabbandieri, tradizione pari a quella degli spazzacamini, che avevano per compagna la Luna – “il sole zingaro” – nelle camminate sui passi di montagna, attenti a evitare le guardie e pronti comunque a scambiare fucilate.

I contrabbandieri vigezzini hanno dato vita a tante storie, “di amicizie e odii, solidarietà e tradimenti, eroismi e viltà, perdoni e vendette”, come ha scritto Alberto Sinigaglia nella prefazione al libro di Benito Mazzi Nel sole zingaro, dedicato ai contrabbandieri di queste terre “avare”, patria di “vite stentate, con la fame che morde le viscere e ti spinge al rischio”. Oggi la fame dei vigezzini è un ricordo lontano, il benessere ha interrotto l’emorragia dell’emigrazione e lo sviluppo turistico li ha definitivamente riscattati dall’isolamento che fu il principale motivo per cui venne costruita questa ferrovia. Il progetto risale alla fine dell’Ottocento, finalizzato a unire la direttrice del Gottardo a quella del Sempione, ma ci vollero molti anni per realizzare la linea finalmente inaugurata nel 1923, quando le prime locomotive sferragliavano lanciando nel cielo terso nuvole di vapore candido come le nevi delle vette. Negli ultimi anni i convogli che salgono verso la Svizzera offrono svariate possibilità di gite turistiche, oltre all’avvicinamento ai campi da sci: scendendo dal treno a Santa Maria Maggiore, si possono raggiungere le piste con una spettacolare funivia panoramica, mentre a valle rimangono gli appassionati dello sci di fondo. Poco distante c’è Crana, e non perdiamo l’occasione di una visita al piccolo borgo che ospita il rinomato prosciuttificio di Pierino Bona: il Prosciutto Montano Vigezzino ha un suo profumo particolare, leggermente affumicato al ginepro. Altri odori impregano l’aria: fieno e stallatico. Da queste parti gli animali vengono ospitati nei borghi quando arriva l’inverno. La frontiera con la Svizzera la varchiamo sul ponte di Ribellasca, di là c’è Camedo, separate da una profonda gola che segna il confine. I tempi dei contrabbandieri sono ormai lontani: nessuno ci chiede i documenti, niente controlli, e il macchinista si sporge a salutare eventuali doganieri, che per altro ci ignorano.

Riprendiamo il viaggio beandoci la vista con le spettacolari gole delle Centovalli e i suoi viadotti in ferro o mattoni, e passando da Tegna sfioriamo il cimitero: qui c’è la tomba di una delle scrittrici che amo di più, Patricia Highsmith, autrice di romanzi memorabili, nei quali ha scandagliato le mille sfaccettature dell’animo umano camuffandoli da “gialli”. E arriviamo infine al capolinea, Locarno. Il lago Maggiore lambisce la piazza dove un tempo si tiravano in secca le barche. Allora, ai tavolini dei bar, sorseggiavano un Capiler – infuso a base di capelvenere e uno schizzo di liquore – personaggi come Michail Bakunin, e una miriade di artisti, scrittori, poeti e musicisti, da Leoncavallo a Rilke, da Remarque a Fromm, e Paulette Godard, Max Frisch, Hermann Hesse, esuli o autoesiliati in questa zona che fu ritrovo di intelletti spesso banditi dalla propria terra o semplicemente in cerca di quiete.

Sul finire dell’Ottocento la Svizzera, e in particolare il Canton Ticino, divenne il rifugio di molti pensatori anarchici perseguitati nei propri paesi d’origine, “galantuomini” inclini alle arti e alle scienze e donne precorritrici degli ideali di liberazione della condizione femminile, e se ancor oggi questo singolare paese dalle varie lingue vanta una tradizione di tolleranza e apertura mentale, sono certo lo debba anche ai tanti libertari che lasciarono un’impronta profonda nella sua cultura. Pochi passi e raggiungiamo il vaporetto per un tour panoramico sul lago. Echeggia un urlo: “Uhe, Pepín! Vien a lavorar, lazaròn!”.

L’anziano Pepin risponde con un gestaccio divertito all’amico e collega: che è un africano dall’improbabile accento ticinese. Il ricordo dei migranti di ieri e il lavoro dei migranti di oggi, nella paciosa Locarno